Lettere di Silvestro a' suoi amici sui libri che legge
Pubblicato in: Il Baretti, anno III, fasc. 6, pp. 1-2.
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Data: giugno 1926
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A Mario Fubini.
Anzitutto non so se mi potrai mai perdonare d'aver posto il tuo nome nell'indirizzo di questa, prima d'una serie di false lettere destinate, almeno nell'intenzione (del resto innocua) dello scrivente, ad un più vasto cerchio di pubblico e disertanti intorno ad una materia, ahimè! così poco intima e confidenziale. Se devesi tentare di mettere innanzi delle giustificazioni per avere assunto un modo così antiquato insolito ed ambiguo di comunicazione letteraria con il mio prossimo, non so davvero come riuscirei a cavarmela. Ma proprio dovrò accingermi ad indagare se a ciò m'abbia indotto piuttosto un umor ritroso e salvatico o non forse un gusto decadente prezioso ed arcaico? Come se tutte le parole e le azioni che vengon fuori ogni giorno su questa nostra vecchissima terra volessero, o meritassero, una giustificazione: o massimo gli articoli di giornale!A te' per altro, mio carissimo Mario, potrò confessare che, chiamando a raccolta voi tutti amici, e mettendo sotto la protezione de' vostri nomi (e del tuo prima che d'ogni altro) queste mie solitarie divagazioni, ho obbedito per così dire ad un segreto istinto, che mi spingeva a mantener viva intorno n queste pagine l'atmosfera d'intimità, donde scaturirono, conscia di interminabili conversazioni peripatetiche e di tante lunghe ed inutili discussioni, che han popolato la nostra adolescenza già così lontana.
Ambiente raccolto e quasi famigliare, che ogni altra definizione, tranne questa che ho scelto dì lettere, avrebbe irrimediabilmente distrutto.
Così ch'io credo che a te pure, come a me, parrà soltanto di riprendere un vecchio dialogo interrotto, quand'io timidamente (come persona priva di lumi speciali in materia) verrò a riferirti un dubbio, che già altre volte ci ha preso, ed ora ritorna a turbarmi, incalzante ed ansioso di esprimersi: se cioè, proprio le lettere italiane d'oggidì siano in quel fiore e rigoglio che da molte parti si va dicendo e vantando.
Dopo il periodo delle battaglie e delle polemiche, che ha preceduto e seguito per alcuni anni l'altra e più vera guerra, par che sia giunto il tempo della concordia: idillica ed arcadica pace diffusa per tutte le scuola ed i cenacoli letterari della penisola, come per un improvviso incanto. Se ieri soltanto gli scrittori di Rema chiamavan borghesi quelli dì Milano, e i milanesi accusavano di freddezza i romani; se ancora non del tutto spenta l'eco delle gran bòtte o de' fendenti che si menavan giù senza pietà ne' tornei dei vociani o nelle quintane de' neoclassici: oggi tuttavia pare che sian tutti disposti ad abbracciarsi scambievolmente, tutti uniti, tutti amici, tutti fratelli. Ora può darsi che l'Arcangelo Michele preparasse davvero gravi danni all'esercito Saraceno, quando introdusse, rompendole un manico di croce sulle spalle, la Discordia nel campo d'Agramante: ma è certo invece che fra letterati le discussionì anche aspre, son segno quasi sempre di vita (anche per chi non voglia dare soverchia importanza alla variopinta vicenda delle teorie e de' progetti), mentre i periodi di generale concordia coincidon per lo più con una decadenza diffusa e mortale.
La pace, che permette a scrittori di diversissimo valore di trovarsi insieme senza disgusto sulle pagine di uno stesso giornale, e induce i critici a misurare le loro parole con le regole d'una generosa cortesia e della più ampia tolleranza, crea a poco a poco un'atmosfera d'acquiescenza rilassata e molle, dove tutto finisce di sembrar buono a coloro che han paura d'apparire incontentabili. Che un ambiente troppo pacifico sia esiziale alle buone lettere lo prova anche il bisogno, più volte di fatto mostrato da quei letterati stessi che s'abbandonano agli ozi snervanti che abbiamo descritto, di creare discussioni e liti artificiose, al posto dì quelle vere e spontanee, onde romper la monotonia d'un mondo privo di difficoltà e di pericoli. Così oggi, mentre eravarn commossi fino alle lacrime dalla nuova bontà e fraternità degli scrittori italiani, non son pur mancati squilli di false battaglie (tutti hanno ancora in mente certa affettuosa polemica sulla critica, della quale sarà bene riparlare un'altra volta): liti garbate, non dissimili da quelli che sui campi sportivi chiamano matches amichevoli. Ma gli sportmen sanno bene come nulla sia più insipido, noioso ed insopportabile d'una gara amichevole. E così le polemiche, che Umberto Fracchia ci imbandisce di tanto in tanto sulle tolleranti e pacifiche pagine della sua Fiera letteraria.
Un'altra conseguenza dell'eccessiva concordia è che, spuntati i pungiglioni delle invidie e rinfoderate le spade de' critici, i più degli scrittori finiscon col rassegnarsi umanamente alla loro debolezza e con l'adattarsi a poco a poco ad un'attività sempre più convenzionale e commerciale, senza ritegno e senza pudore. Non par di sentire tutt'intorno a noi non so che aria dì decadenza e di bassezza, che asseconda i gusti peggiori del pubblico, anzichè moderarli e correggerli, e saluta a gran voce d'applausi i libri più facili e vendibili, mentre lascia passare inosservati i migliori!
Vedi, per esempio, le accoglienze manierate e false onde fu accolto, nè nostri ambienti letterari, l'ultimo libro di Giovanni Papini, nelle quali affetto od amicizia per l'uomo han finito di prender il posto del rispetto, che si deve comunque allo scrittore, anche a costo di dirgli verità dolorose e spiacenti. A proposito di queste accoglienze, altri già ha osservato ne' critici un ritegno, una titubanza non molto lontani dalla paura. Il che mi par tanto più grave, se si pensi che questo Pane e vino è venuto quasi naturalmente, e forse contro la speranza stessa dell'autore, a porsi tra quei libri che abbiam chiamato alla moda e commerciabili. Molte cose, e persino certa eleganza preziosa dell'edizione e della stampa su carta a mano con timbro a secco e motto del poeta, mi fan pensare che il libro debba aver trovato facilmente il suo posto nei salotti delle signore, accanto ad altri, compagni poco desiderabili e forse poco desiderati. E non voglio già dire che ciò sia gran male: ma certo, da siffatti ambienti, il lupo di Gubbio deve uscire alquanto ammansato ed intinto di buona educazione.
Forse per esser nati un po' troppo tardi, noi non abbiam conosciuto di fronte a Papini quelle reazioni di simpatia o d'antipatia, in ogni caso esagerate o violente, che altri han provato e descritto, i quali debbono averlo visto uscire sul carro del trionfo, tutte le bandiere spiegate al vento, tra squilli dì trombe e grida festose. Cotesto gran clamore era già da tempo sopito quando noi, evitando cautamente la noia che indovinavamo persin ne' titoli delle Stroncature, delle Buffonate, del Crepuscolo dei filosofi, ecc., ci volgemmo a leggere, con la curiosità del dilettante, quegli altri libri dei quali alcuni valentuomini ci avevano detto gran bene.
Non dimentichiamo il gusto che abbiam provato leggendo certe pagine dell'Uomo finito: le passeggiate silenziose insieme con il babbo per strade deserte e fuori di mano incassate fra muri umidi e bigi; il triste, volontano, dolcemente stilizzato sogno d'amore d'un fanciullo che va con una bimba umile fragile, per strade illuminate dalla luna, tra il patetico cantare dei grilli; le linee d'una amicizia severa solitaria e sdegnosa. E potremmo citare anche altre cose dalle Cento pagine di poesia: (I miei amici, Un giorno soltanto), e dei Giorni di festa ci tornano in mente i freschi e chiari ricordi di Bulciano: figure di contadini e donne dei campi, animali e cose disegnati con affettuosa precisione, cieli burrascosi e sereni, terre lavorate e riarse. Sennonchè, se ripensiamo a coteste letture, ci pare di non aver potuto mai liberarci da un certo senso di freddezza che da quelle pagine scaturiva, come da un esercizio volontario e artificioso, non mai disciolto, come si dice, in poesia pura. E non so se oggi riusciremmo a leggere quei libri fino in fondo: temo che dell'Uomo finito ci turberebbe, ancor più della prolissità autobiografica, la prosa anfanante e spesso crescente a vuoto su se stessa, per meri richiami verbali; e in tutti gli scritti poi non sapremmo tollerare l'intrusione continua e violenta della persona pratica e polemica dell'autore; il vezzo d'adoperare le figure e le cose descritte, non come fine a se stesse, ma quasi mezzi all'artificiosa dimostrazione d'un concetto; la volgarità e superficialità quasi in ogni parte diffuse. Vero è che da molto tempo, prima che venissero ad insegnarcelo gli esegeti, abbiano imparato a cercare in quei volumi solo i frammenti descrittivi e paesiatici: ma d'altra parte la nostra esperienza pur breve ci ammonisce a diffidare di quegli autori, dei quali si lodino soltanto a dovizia e la perizia delle descrizioni: indice di non lontana e quasi sempre sicura noia. Ogni qualvolta, usciti appena dalla lettura d'un libro di Papini, mezzo assordati ancora ed abbagliati dalla foga luminosa e tuonante di quei fuochi d'artificio, ci siam provati a mettere insieme un abbozzo di giudizio critico, abbiam trovato nel nostro animo due impressioni parallele che potevano parere contradditorie; il senso d'un lavoro composto a freddo, senza il sostegno d'una costante ispirazione, e d'altra parte il ricordo d'una facilità leggera e scorrevole, ma tutta esteriore, senz'ombra di riflessione o di studiosa fatica. Invero, se la costruzione di queste pagine d'arte lascia troppo spesso scorgere la fragile impalcatura di concetti che la sostiene senza disperdersi in essa animandola, d'altronde i momenti più felici e più cari al nostro gusto non van privi del sentimento d'una eccessiva semplicità, d'un troppo confidente abbandono, che s'appaga di modi e frasi convenzionali e si compiace del suo giuoco troppo abile e lieve. Anche noi crediamo che molte pagine di Papini, polemiche od autobiografiche, letterarie o teoriche, sian state scritte (come altri osservò) per una pura gioia di scrivere: senonchè vorremmo distinguere tra la vena abbondante ed abbandonata del letterato-giornalista e il gusto vero del canto, ch'è del poeta, il quale risolve in esso e travolge ogni oggetto offerto alla sua riflessione.
E se non ci fu dato mai di scorgere in Giovanni Papini la serietà e l'attenzione di un filosofo vero, nè la purezza e la misura d'un sincero poeta, molte volte invece da' suoi scritti — dai giochi delle parole e dal ruzzolare vano dei periodi, come dagli echi molteplici e troppo evidenti di musiche disparate d'ogni regione e d'ogni età — s'è presentata alla nostra mente la maschera, in Italia ben nota ahimè! del letterato. Voglio dire dì quel tipo di letterato becero parolaio e linguaiolo, che il Doni e l'Aretino per esempio rappresentano: tipo che solo il mal gusto d'oggidì ha potuto esaltare sopra la vena sobria e signorile dei veri prosatori classici del nostro cinquecento, dal Caro al Castiglione, dal Firenzuola a Monsignor Della Casa. Come in quegli scrittori, anche nel Papini l'onda dell'ispirazione è breve e quasi sempre turbata da preoccupazioni estranee: si sfoga tutta in poche righe, talora in una parola sola ben trovata ed efficace, poi si raggela in un motto, in un frizzo in un commento.
Quando venne la conversione, non ci stupì. Piuttosto ci lasciaron perplessi i rumori ch'essa suscitò nei nostri ambienti letterari, e che a noi parvero soverchi ed inutili, per non dire ingenui e provinciali. A parer nostro non c'era nulla da dire, non forse riconoscere ancora una volta, come qualcuno ha detto, che alla religione cattolica han sempre recato danno coloro che vi aderissero per ragioni meramente mistiche e sentimentali. Quanto al valore letterario della Storia di Cristo, ci fu tra noi (te ne ricordi, Mario!) chi la giudicò una perfettissima collezione di temi scelti, messi insieme con una sapienza decorativa astuta e superficiale e frigidissima. Nè questo ci parve solo uno scherzoso e facile paradosso. La convinzione religiosa non ha costretto Papini, come altri poteva sperare, a ripiegarsi su se stesso, non gli ha dato il bisogno d'una più profonda e difficile interiorità, non ha mutato i suoi istinti centrifughi e vagabondi. Anche il silenzio recente abbastanza lungo dovremmo giudicarlo frutto d'una stanca aridità piuttosto che non di penosa riflessione.
Ora egli ci dà un nuovo libro di poesie in rima, che è il secondo del genere nel complesso delle sue opere. Così mi ha messo in animo la voglia d'andare a cercare l'altro che non avevo letto mai. E contro ogni possibile previsione, ho trovato che nel confronto il più vecchio de' due fratelli ci faceva miglior figura. E' vero che, a leggerlo oggi, le strofe barcollanti dell'Opera prima, con le loro preoccupazioni di solidità conquistata, han qualcosa d'antiquato e d'infantile; e anche ci fa un po' ridere l'autore, quando, nello sue ragioni in prosa, vien fuori proclamandosi quasi precursore e rinnovatore (al solito) del classicismo poetico. Così pure leggendo come Papini creda «d'aver fatto poesia che non somiglia troppo a quella che c'era», ci domandiamo meravigliati che cos'erano allora certe risonanze di motivi svariati e discordanti che qua o là avevamo avvertito.
Forsechè, arrivati a leggere la quindicesima poesia, non avevamo creduto d'intravvedere la ombra del vecchio Pascoli, un po' stinta e stemperata attraverso gli esercizi lirici del buon Marino Moretti! Altra prova della materia fragile e un po' trina che si nasconde sotto le apparenze esteriori di queste false ricerche cerebrali.
Tuttavia nell'Opera prima, Papini aveva saputo mostrarci una certa virtù non sempre spregevole, e soprattutto aveva saputo limitare il suo vagabondaggio entro i confini d'un contenuto tutto personale ed astratto. In Pane e vino egli ha rinunciato ad ogni infingimento e ad ogni difesa, e ha voluto prender di petto direttamente e coraggiosamente una più ampia varia e ricca materia umana. C'è un gruppo di poesie di tono per così dire maggiore e più solenne, che nessuno ha potuto lodare, e colle quali ci parrebbe inutile fermarsi a ragionare e discutere. In esse come nel Soliloquio introduttivo, rivive il polemista ed il retore, che tutti conoscono anche troppo: non mutato nel fondo sebbene stia oggi ad esaltare e difender, idee e cose che ieri soltanto insultava. Perchè a parer mio, non basta distinguere (come han fatto su per giù tutti i critici che han voluto occuparsene) la parte fantastica personale e sentita di questo libro da quella puramente polemica e retorica. Occorre vedere fino a che punto, nelle poesie che rimangono, la sincerità umana si trasformi in sincerità lirica. Ecco intanto un primo gruppo di componimenti autobiografici, nei quali compaiono, sebbene vagamente idealizzate, la sposa, Viola e Gioconda. Tutti citano, di queste poesie, strofe staccate, nelle quali un'agile e leggiadra grazia certamente risplende, senza impedirci tuttavia di sentire sotto sotto un modo di procedere troppo lesto e facile perchè, ci posa persuadere appieno. Se andiamo ad osservare le cose più da vicino, la prima impressione si consolida. Dappertutto intanto ci `si affacciano echi o ricordi d'altri poeti, in specie pascoliani.
E poi l'ordito tenue di ciascuna costruzione si sfascia senza resistenza fra le nostre mani. Sarebbe inutile mostrare ad uno ad uno i vizi musicali e poetici di poesie come La sposa: le parole riprese da un verso all'altro senza necessità, lo scorrer dei versi troppo liquido e cantabile, e persino certi modi lirici tra il femmineo ed il puerile:
aperta al cielo color paradiso...
E confronta, in Gioconda:
Anche i frammenti. che si posson scegliere, nascon per così dire sul vuoto, e mancan di consistenza. L'abbandono dei modi ingegnosi e volontari dell'Opera prima, il desiderio di semplificazione si rivela dannosissimo al poeta.
In un altro gruppo di poesie lodate, quelle che prendono il loro motivo da descrizioni di paesi, stagioni, ore del tempo, spiace il vezzo antico del Papini di istituire rapporti falsi ed artificiosi tra le cose descritte e le vicende de' suoi personali affetti. Come ognuno può vedere da sè, osservando le poesie Primo settembre e anche Luglio, nella quale un'efficace sestina descrittiva sì perde nella doppia falsità dell'ispirazione artificiosa e della manierata costruzione metrica.
Meglio persuadono per la loro sincerità, e quasi piacciono per un senso di più consapevole e meditata tristezza che vi trapela, altre poesie che formano un terzo gruppo a sè: Solo, Felicità irrimediabile, Offerta, Le Prigioni. Se pure anche in esse starem paghi a trovare nient'altro che un'onda d'eloquenza più calda e sincera, e forse un presagio di redenzione, non la conquista d'un tono lirico perfettamente sereno e compatto. In tutto il libro d'altronde credo sarebbe impossibile scoprire anche, un solo gruppo di versi, nei quali riluca, espresso in perfetta purità, un sentimento od una immagine. L'impressione definitiva è, nel lettore, dì desolato sconforto, che quasi non consente ulteriori speranze. Ad ogni ritorno, ritroviamo il vecchio Papini immutato.
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A quelli che vanno in giro predicando a vanvera il ritorno alle tradizioni la lettura di Pane e vino potrà giovare, e persuaderli forse che le schiavitù metriche ritmiche e sintattiche, se per sè stesse non recano danno alcuno ad una sincera ispirazione, non bastan però da sole a costituirla. Non c'è che un criterio di distinzione, quello che il Maestro illustre ci ha insegnato: poesia e non poesia. Nella difficoltà tuttavia della scelta farraginosa taluni minori indizi possono, non dico metterci sulla via buona, ma aiutarci a trovarla: e soprattutto, oggi che ognuno esce in lizza facendo se è possibile molto chiasso, un tono di signorile ritrosia e di schifiltosa riservatezza.
Ho qui fra i molti un altro libro di poesie — gli Ossi di seppia di Eugenio Montale — che Piero Gobetti, il quale se n'era fatto editore, mi donò un giorno, raccomandandomelo con parole sue di lode. E a me piace assai per il tono di severa difficoltà e di consapevole rinuncia che l'autore ha saputo raggiungere quasi sempre. Non voglio già dire che queste poesie sian tutte perfette: credo anzi che assai poche arrivino a toccare quella serena armonia che è nei voti del lettore e fors'anche del poeta. Ma sempre si ha l'impressione di trovarsi di fronte ad un lavoro attento e tormentato, che non s'appaga mai di facili ritrovati nè accetta modi accomodanti e frettolosi.
Tanta è la consapevolezza critica che da ogni pagina di questo libretto trapela, che le liriche (scritte tra il '916 e il '24 e dato, come ci avverte l'autore, in ordine non cronologico) a me paion disposte secondo una legge ideale progressiva ed ascendente, quella che al critico appunto spetterebbe con fatica ritrovare. Il quale invece si lascia prender volentieri per mano dal poeta, che sapientemente lo conduce.
Come le forme metriche tradizionali possan essere adoperate dal Montale, non dico con la aderenza facile e franca degli antichi, ma insomma senz'ombra di profanazione, lo si vede subito in un primo gruppo di poesie, quelle stesse che han dato il titolo a tutto il libro: sensazioni fuggevoli di cose e di paesi chiamate a rispecchiare la desolata ed immobile esperienza intima del poeta. Siam ben lontani qui dai paesaggi di Papini estrinsecamente riaccostati ad una interpretazione concettuale, che si sviluppa ad essi parallela senza potervisi mai adeguare: qui certo gli spunti naturali dell'ispirazione nascon già ricinti della sognante atmosfera che in essi si riflette. Tuttavia pare che spesso l'equilibrio poetico si regga soltanto sulla perizia del verseggiatore, che abilmente attenua le discordanze e nasconde le lacune dei passaggi più rischiosi. Così le liriche che incominciano «Meriggiare pallido e assorto», «Gloria del disteso mezzogiorno», «Il canneto rispunta i suoi cimelli», «Valmorbia», e che pure contengono versi assai belli, ci lasciano in parte delusi. E talora anche, come nelle liriche «Spesso il male di vivere» e «Forse un mattino», o anche nell'epigramma a Camillo Sbarbaro, l'abilità del poeta è troppo compiaciuta e leccata. Ma già nell'ultimo di questi «ossi di seppia», che pur non è de' migliori, appare la tendenza del Montale a rompere le forme nelle quali s'era dapprima chiuso, in cerca d'una più ampia e musicale, sebben contenuta libertà:
che adombra i sedili rari
l'arco del cielo appare
finito.
Chi si ricorda più del fuoco ch'arse
impetuoso
nelle vene del mondo; in un riposo
fredde le forme, opache, sono sparse.
Rivedrò domani le banchine
e la muraglia e l'usata strada.
Nel futuro che s'apre le mattine
sono ancorato come barche in rada.
L'ansia d'una musicale libertà penetra un altro gruppo di queste poesie, fino a sgretolarle e quasi a dissolvere ogni loro armonia. E qui piace considerare, per esempio, «Mediterraneo» o «L'agave su lo scoglio» quasi abbozzi e tentativi falliti sulla via d'una raramente toccata felicità. Non credo, come altri ha detto, che qui il lettore sia disturbato dalla volontà che è nel poeta d'assumere la sua terra e il suo mare a specchio e simbolo della sua vivente esperienza: mi pare che si tratti più semplicemente dell'ondeggiare incerto dello scrittore, fuor delle forme chiuse dei poemi più brevi insufficienti a contenere la musica nuova, verso un tono lirico e metrico non ancora o solo a tratti raggiunto. Talora, in questi componimenti, la compagine metrica si sfalda e si sfascia a tal punto che qua e là affiora, insostenibile, la prosa più piatta ed approssimativa («la mente che decide e si determina», «si vestivano di nomi — le cose, il nostro mondo aveva un centro»). Senza dire che questo vizio è troppo raro nel Montale perchè metta conto d'insistervi, d'altra parte in poesie, come «Fine dell'infanzia, Crisalide», ci arrestano già di tanto in tanto serie di versi quasi perfetti:
marina e case, ulivi le vestivano
qua e là disseminati come greggi,
o tenui come un respiro
della terra od il fumo di un casale
che veleggi
la faccia candente dal cielo.
E il flutto che si scopro oltre le sbarre
come ci parla a volte di salvezza;
Come può sorgere agile
l'illusione, e sciogliere i suoi fumi.
Vanno a spire sul mare, ora si fondono
sull'orizzonte in foggia di golette.
Spicca una d'esse un volo senza rombo,
l'acque di piombo coma alcione profugo
rade. Il sole s'immerge nelle nubi,
l'ora di febbre, trepida, si chiude...
L'ansia del canto che in queste liriche urge e trema, sebbene appaia più spesso eloquenza che poesia, ritrova la sua libertà musicale sonora e fluente soprattutto in due componimenti. «Riviere», che molti giustamente hanno lodato e «Casa sul mare», che merita lodi fors'anche più alte e sincere. Qui tra la natura descritta e i sentimenti del poeta non v'è salto o distacco alcuno, ma gli uni trapassano e si riversan nell'altra senza sforzo, disfacendola in una luce melanconica e trasognata. Inutile sarebbe citare, e d'altronde la scelta è difficile. Ma forse è altrettanto inutile questo mio commento: perchè su queste, e su tutte le poesie del Montale, ha già fatto osservazioni troppo giuste ed affettuose un nostro comune amico, Sergio Solmi, in una sua bella recensione nel Quindicinale di Milano. Ed io ti consiglio, mio carissimo Mario, a ricercare quelle pagine, se non le hai viste ancora. Anche per ristorarti della noia che senza dubbio t'avrà procurato questa troppo lunga lettera del tuo
SILVESTRO GALLICO.
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